L'Abazia di Moscheta fu fondata da San Giovanni Gualberto nel 1034.
Il nome di Moscheta deriva dal luogo in cui fu fondata la badia, chiamato anticamente Mons Ischetus, monte degli ischi, querce dolci, farnia, volgarizzato poi in Moscheta.
San Giovanni Gualberto, che aveva al suo seguito una comunità di fedeli molto numerosa decise di mettersi in cammino partendo da Vallombrosa, la sua prima badia, per cercare un luogo in cui fondarne una nuova. Il Conte Anselmo da Pietramala venne a conoscenza del viaggio del Santo e gli donò un miglio di bosco nei dintorni di Moscheta. San Giovanni Gualberto accettò ed affidò così a Rodolfo Galigai, suo successore nella guida dei vallombrosiani, la costruzione della badia Moscheta.
All’ingresso del chiostro si trova ancora oggi la riproduzione di una lunetta in pietra serena con i simboli di Moscheta. Sono raffigurati San Pietro, la farnia e l'istrice. Mondo del sacro, delle piante e degli animali. A San Pietro San Giovanni Gualberto dedicò l’abbazia, emblema della sua lotta contro la simonia e la ricchezza del clero, fu infatti San Pietro a sconfiggere Simon Magio, il primo a mettere in vendita le cariche della Chiesa. Per il mondo vegetale San Giovanni Gualberto scelse la farnia, da cui deriva il nome del luogo, chiamata quercia dolce perché le ghiande hanno un sapore molto dolce, da cui le popolazioni di queste montagne ricavavano anche il caffè.
L'istrice indica invece lo stile di vita sobrio e ritirato dei monaci. Rappresentato con gli aculei abbassati forse in segno di addomesticamento da parte dei monaci o di convivenza pacifica dato il silenzio e la vita ritirata dell'Abbazia.
La storia narra che negli anni successivi alla fondazione Moscheta ha subito due distruzioni miracolose ad opera di due elementi naturali: l'acqua e il fuoco. La prima volta la forza dell'acqua del torrente Vacchile, che scorre accanto al complesso, provocò una frana che investì la nuova Badia. L'acqua era stata invocata dall'ira di San Giovanni Gualberto che, tornato dopo qualche anno a Moscheta trovò arredi sfarzosi e monaci che non osservavano i principi di sobrietà dell'ordine.
La Badia fu ricostruita con le stesse pietre, ma qualche anno dopo secondo la leggenda il volere Divino punì i monaci con un incendio di cui permangono ancora oggi delle tracce.
In questo caso i religiosi avevano accettato l’eredità di un ricco signore che aveva donato tutto alla badia in punto di morte diseredando i parenti.
San Giovanni Gualberto era figlio di una ricca famiglia di feudatari del Chianti, la leggenda narra che la conversione avvenne il venerdì santo del 1028 mentre si trovava nella Chiesa di San Miniato a Firenze di fronte all'assassino del fratello. Nel momento in cui stava per ucciderlo un bagliore lo accecò e abbracciò il nemico, in cui vide il Crocifisso nel momento della Passione.
Tale episodio lo spinse a diventare monaco benedettino presso la stessa Chiesa di San Miniato, ma presto si scontrò con l'Abate e denunciò la corruzione del Vescovo di Firenze.
Costretto a lasciare Firenze si stabilì nelle foreste di Vallombrosa. Qui accade un altro miracolo molto noto, in una fredda notte d’inverno un faggio spoglio si ricoprì di foglie per proteggerlo, così il Santo fondò un piccolo villaggio di capanne abitato da monaci. Dopo poco tempo vi sorse l’Abbazia di Vallombrosa. Divenne il padre dell’ordine dei vallombrosiani e la sua scelta di sobrietà fu fin da subito in contrasto con la Chiesa dell’epoca, in cui regnavano la simonia, vale a dire la vendita di cariche e grazie e la ricchezza.
San Giovanni Gualberto fece poi costruire le Badie di Moscheta, San Paolo a Razzuolo, su terreni donati dal cardinale Ottaviano e San Salvi a Firenze, mentre i già esistenti monasteri di Santa Reparata di Marradi e Badia a Passignano entrarono a far parte dell’ordine.
La lotta del Santo contro la diffusione della simonia nella Chiesa proseguiva senza sosta, ad esempio nel 1058, trovatosi a Moscheta si rifiutò di incontrare il Papa Stefano IX di passaggio tra Bologna e Firenze. Molto noto è anche lo scontro con il Vescovo simoniaco di Firenze che portò alla strage di San Salvi del 1066, in cui molti monaci furono trucidati dai seguaci del vescovo. Il priore Pietro della Badia a Passignano, superò poi la prova del fuoco di fronte a duemila persone nella Piana di San Salvatore a Settimo e il Papa Alessandro II fu costretto a deporre il vescovo.
Il successo dei vallombrosiani crebbe ancora e i principi dell’ordine si diffusero in molti altri monasteri.
Il 12 luglio 1073 dopo aver affidato la guida del suo ordine a Rodolfo Galigai San Giovanni Gualberto, ricordato come uno dei grandi riformatori della Chiesa, morì a Passignano dove si era ritirato da alcuni anni. Nel 1951 San Giovanni Gualberto fu proclamato patrono dei forestali d'Italia, dato il suo legame con il bosco e la natura.
Alcune storie narrano dell’esistenza di un orso presso la Badia di Moscheta che faceva strage del bestiame, reso docile dalle preghiere di San Giovanni Gualberto e ucciso da un monaco. Altri miracoli e leggende sono attribuiti al Santo, tra cui quello del sacco di grano che non si svuota per un’intera giornata per dar da mangiare agli affamati. Altri raccontano che alla vista di una moltitudine di poveri a Moscheta il Santo osservò le vacche che stavano a monte, si mise in preghiera e nei giorni successivi gli affamati riuscirono a sfamarsi grazie alle vacche rotolate a valle morte. Inoltre il Santo aveva il potere di far cessare le tempeste che provocavano la distruzione dei raccolti.
Nei secoli successivi alla fondazione la badia ha avuto momenti di grande splendore e nel XIII era considerata una delle più floride della Toscana. I monaci avevano una particolare cura per le terre della badia, la cui estensione aumentava velocemente, fino a raggiungere i comuni di Luco, Scarperia e Montescalari.
Nel 14° secolo iniziò il declino della badia, da uno scritto dell’abate generale che aveva visitato Moscheta nel 1372, si deduce che le strutture si trovano nel più completo abbandono e che l’abate si era trasferito a Scarperia, pedroni e ladroni opprimevano il complesso con le loro angherie. La terribile peste di questo secolo aveva colpito anche l'Abbazia.
Dalla prima metà del 1400 Moscheta fu affidata a Abate Commendatari, ecclesiastici o laici a cui era affidato il potere di giurisdizione e gestione di un’abbazia, ma non sulla disciplina monastica interna. Tale pratica era molto diffusa nella Chiesa al fine di ottenere consensi, stringere alleanze e controllare il territorio. Iniziarono così anni di nuovo splendore, in cui ripresero le attività economiche, mentre quelle spirituali e di carità furono accantonate. Il prestigio di Moscheta era comunque alto, basti pensare che Lorenzo il Magnifico fece eleggere abate commendatario alcuni suoi devoti.
Nel 16° secolo l'abbazia fu abbandonata e non era più abitata da monaci vallombrosiani.
Nel 1748, durante il periodo delle riforme il Granduca Leopoldo vietò l’eremitaggio e la badia fu messa all’asta. Con il ricavato furono costruiti il seminario di Firenzuola e i ponti sul Santerno a Camaggiore e sul Diaterna. Il complesso divenne una fattoria, fino a che alla fine degli anni ’50 non fu venduta allo stato e divenne bene demaniale.
Il complesso monastico comprendeva l’attuale struttura in cui si trova il museo, una parte di quello che oggi è il ristorante e il cimitero. Nella costruzione dell'Abbazia i monaci hanno seguito le regole importate dagli eremitaggi mediorentiali. Innanzitutto occorreva pensare al sostentamento dei religiosi e quindi furono creati l'orto e le stalle per gli animali. Erano inoltre presenti l’ospitale per i poveri, locali per dare aiuto agli ammalati e il ricovero per gli anziani.
I monaci erano obbligati ad accogliere e dare da mangiare ai viandanti per tre giorni e all'epoca esistevano anche pellegrini che si spostavano da un monastero all'altro per cercare di sconfiggere la fame. Il territorio era bene conosciuto ed erano tenuti a mostrare ai viandanti le vie più sicure e i sentieri meno pericolosi.
Secondo Stefano Casini (Dizionario biografico geografico storico del Comune di Firenzuola), esisteva anche una farmacia, in cui si utilizzavano le erbe dell’orto e della foresta per la preparazione di rimedi naturali. I religiosi dedicavano molto tempo allo studio della medicina ed erano tra i pochi a saper leggere e scrivere all'epoca.
Un fuoco era sempre accesso per accogliere i viandanti e per curare gli ammalati. Si conoscevano già le proprietà benefiche del miele e le tecniche di apicoltura.
I monaci vestivano un saio di lana tinta con mallo di noce che donava il caratteristico colore marrone. Non portavano la cintola, introdotta trecento anni dopo da San Francesco.
“Essi (i monaci) trovatisi a vivere tra popoli rozzi dediti alle armi e alle rapine non potevano avere altro mandato che quello della carità, che di sollevare le terribili indigenze delle poveri plebi abbandonate ed instillare l'amore ai pacifici studi dell'agricoltura” (S. Casini, la Badia di San Pietro a Moscheta. Studio storico” Tipografia Ricci, Firenze 1894).
I religiosi insegnavano alla popolazione come lavorare i terreni, affidandone una parte in gestione diretta alle famiglie del luogo per evitare che abbandonassero queste aspre montagne. Secondo alcuni introdussero anche il principio della piccola proprietà terriera, dando in affitto perpetuo le terre di cui le famiglie non si sarebbero potute permettere l’acquisto.
Inizialmente le caratteristiche del luogo permettevano solo la presenza di pascoli, ma lentamente i monaci riuscirono anche a lavorare dei terreni a seminativo. Iniziarono la coltura del castagno (alcuni dei castagni presenti nei dintorni risalgono a questa epoca), tramandarono le tecniche di potatura e della scapezzatura, vale a dire la raccolta dei giovani ributti, usati per gli animali durante i lunghi inverni. Piantarono anche dei sempreverdi, forse come richiamo alla casa madre di Vallombrosa o come simbolo di ritiro. Alcune testimonianze riportano anche l'esistenza di piccole vigne e oliveti. La maggior parte dei guadagni era così destinata alle opere di carità, come il mantenimento degli ospedali di Frena, Rifredo, Pietramala, Monzuno e Cornio. Alcune di queste strutture furono poi trasformate in osterie e luoghi di ristoro per i viandanti, ma anche quest’attività era considerata di beneficenza, al punto che a monaci di Razzuolo fu permesso di tagliare i boschi in luoghi proibiti per ottenere legna per l’osteria.
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